Forza, venite gente…

Sabato sera ho cantato e recitato. Si trattava di un musical sulla vita di San Francesco dal titolo “Forza venite gente”.
Ho fatto la parte del diavolo tentatore. Mi ci ritrovo, non fosse altro perché è la figura più trasgressiva e sopra le righe dello spettacolo.

Fioretti

Fioretti

Giusto per la cronaca mia moglie faceva la parte della morte… Quando si dice due spiriti affini. Ma sto divagando, non era di questo che volevo scrivere. Volevo scrivere di genitori. Ancora una volta.

La storia di San Francesco bene o male la sanno tutti. Un uomo ricco che ad un certo punto della sua vita, come Paolo sulla via di damasco, viene folgorato dalla fede e si redime (da cosa, ci si chiede), rinuncia a tutto quello che ha, ricchezza, donna e salute per fondare un ordine religioso basato sulla povertà. Una povertà totale, senza incoerenze. Usa un sacco come vestito e chiede la carità, fino a morire in malattia, ma felice.
La recita in questione mette in musica la vita di San Francesco. Il suo personaggio non parla mai, canta e basta, anzi essendo un musical, tutti cantano e basta, tranne due personaggi: una pazza (ma anche no) chiamata Cenciosa e Bernardone, che di Francesco è il padre.
Ed era qui che volevo arrivare. Tra una canzone e l’altra infatti ci sono monologhi di questi due personaggi e di sicuro i più interessanti sono quelli del padre di San Francesco, che ho rivisto in chiave di genitore, dopo che dieci anni fa (quando facemmo per la prima volta lo spettacolo) li vedevo solo come figlio.
I discorsi del padre sono se vogliamo scontati e si riassumono in una domanda: Perché? Mi ammazzo di fatica da una vita, cerco di darti il meglio che si può e tu scegli di rinunciare a tutto, senza nemmeno darmi spiegazioni. Perché? Perché rifiuti la via che ti sto indicando per essere felice come me? Perché a darti ragione ci sono solo i pazzi?
Ah che domande. E dieci anni fa rispondevo, da figlio: lasciami vivere la mia vita.
Adesso che però il genitore sei te, e la tua vita te l’hanno lasciata vivere, è giusto che tu la lasci vivere a tuo figlio anche se ti sembra che si stia distruggendo da solo?
E tutto rimane appeso, fino all’ultima, fatidica domanda che il padre si fa quando ormai suo figlio è morto. Cosa me ne faccio di un figlio santo, se ormai è morto?
Cosa te ne fai di un figlio che per vivere la sua vita ti ha messo da parte?
Ah che domande. Sarà l’attinenza col personaggio, ma tutte queste riflessioni mi hanno fatto ripensare a sette anni fa, quando per il mio viaggio di nozze sono stato ad Assisi. Bel posto. Io e mia moglie abbiamo fatto tutte le visite di rito e poi abbiamo parlato con un frate che voleva farci una catechesi. Ci ha rinunciato quasi subito, non siamo mai stati tipi da catechesi “ora et basta” ed allora abbiamo iniziato a parlare di religione. L’argomento era Abramo che su invito del signore sacrificava il figlio. Una di quelle pagine che non ho mai concepito. Ok, il signore lo ha fermato dicevo, ma solo il concepire di uccidere il proprio figlio, io non lo farei nemmeno con una pistola puntata alla tempia (e non ero ancora padre, pensa un po’).
Fu allora che il buon frate mi stupì mettendomi in difficoltà: Abramo, disse, si fidava di Dio.
La fiducia. Quella che sta alla base di tutti i rapporti. Uomo e Dio. Moglie e marito. Padre e figlio.
Certe volte basta solo fidarsi.
Il concetto è fresco come una rosa, senza spine.